Il viso di tutti i miei russi

Quando leggo un romanzo russo, i visi dei personaggi per me hanno forma. Non è come con gli altri, quando mi faccio un’idea sommaria di un viso, un aspetto. Io vedo i visi nel dettaglio dei personaggi di Tolstoj, Dostoevskij, Turgenev.
Lessi “L’idiota” a 13 anni. Il viso di Myskin per me era quello del biondissimo ventenne che mi piaceva e a cui non ho mai rivolto la parola.
Biondo vero, di madre tedesca, occhi molto verdi e un po’ celesti, perso nel malessere dei ventenni di provincia che vedevano morire gli amici e gli idoli per le stesse ragioni:  perché s’ammazzavano. Direttamente o piano piano, a piccole dosi che a volte diventavano più grandi e mettevano fine al dolore.
E allora M per me diventò Myskin. Sono passati 19 anni, ma è sempre così. È stato Bazarov, è stato Bolkonskij, è stato Raskòl’nikov, è stato Stavrogin, sarà stato tanti altri che ora mi sfuggono.
Lui, tutti, ma lui ventenne, con gli occhi puliti e tristi e spalancati, i capelli spettinati, una sola ruga in mezzo alla fronte, che veniva fuori quando fumava. Aveva i tratti nobili degli aristocratici poveracci e irrecuperabili.
E io mi innamoravo e mi innamoro di tutti perché ero innamorata di lui, innamorata come le tredicenni, innamorata senza costrutto né obiettivo. Innamorata e basta. Innamorata della virgola in mezzo alla fronte mentre accendeva la sigaretta, dei jeans strappati, della moto da cross che usava per andare a scuola, degli orecchini a tutt’orecchio. Innamorata del suo essere tutti i visi di tutti i miei russi, di quelli coi tratti nobili degli aristocratici poveracci e irrecuperabili.
Lo amo ancora come amano le tredicenni, e solo per questo.
Quando inizio a leggere un romanzo russo, attendo di sapere chi sarà il mio M ventenne e corrucciato che rideva forte come i bambini.
Solo un mio russo non è stato lui: Ivan Karamazov. Per me Ivan è moro, non riesco a immaginarlo biondo e non riesco a ricordare se Dostoevskij lo abbia descritto o meno. Forse sì. Con gli occhi celesti e freddi, forse, o neri e scintillanti, che ai russi gli occhi scintillano sempre, per i nervi e per un mondo dentro che non sanno contenere. Alëša è biondo, un po’ M quando rideva forte come i bambini.
E allora sto qui, con queste 800 e passa pagine in mano, do il viso di M a Nikolaj Vsevolodovič, penso al suo viso oggi, con tante virgole sulla fronte per le troppe sigarette, la barba che copre le altre. Gli occhi che sembrano più scuri, sarà il torbido che lascia l’ennesima palata di terra sulla bara di un amico. Non lo so.
Ora ride, ride sempre. Ride stupido, non più forte, parla sottovoce con picchi acuti. Ora ha l’espressione triste e composta e ipocrita che vedo su tutte le facce tristi e composte e ipocrite di tutti i padri e mariti e compagni e uomini che “ciao grandissimo come stai sabato ci facciamo una pizzata con le signore e i bambini” e però si odiano e appena sono a distanza di sicurezza il grandissimo diventa un coglione. E non pensa che pure lui potrà essere il coglione di qualcun altro. E ride, ride stupido e non più forte, con le rughe sulla fronte, mentre cerca di invecchiare il mio Myskin, il mio Bolkonskij, il mio Raskòl’nikov, il mio Stavrogin, ma non gli riesce. Non ha più i tratti nobili degli aristocratici poveracci e irrecuperabili, ma i miei russi sì.
Una volta, nel ’98, a una festa di paese in piena estate, m’andai a sedere su una panchina. Passò lui con la fidanzata dell’epoca e passandomi di fronte non fece un solo movimento. Dieci passi oltre, si voltò, completamente, per guardarmi, camminando. Camminò e mi guardò per 10 secondi, mentre la mano della fidanzata (ironia, lei aveva un nome molto russo) gli stringeva la maglietta rossa sulla schiena.
S’è voltato avanti solo quando lei ha detto “che guardi” e lui non ha risposto. Ho apprezzato che non abbia risposto “niente”.
Guardavo lei col viso senza trucco e i pantaloni bianchi, i sandali da monaco, i capelli come Natalie Imbruglia e il top a righe. E guardavo me con la maglia degli Offspring, i jeans neri, gli anfibi, la matita nera tutt’intorno agli occhi, gli occhiali da nerd prima che fossero da hipster e i capelli fino ai fianchi, boccoli naturali castano ramato ereditati da mia madre.
S’è voltato e io non so che espressione fosse quella.
Sui miei russi a volte la rivedo. E non la capisco ancora. E M quell’espressione non ce l’ha più.
Ho consegnato all’eternità i tratti d’un ragazzo che non esisterà mai più e che pure c’era. Eterna memoria.
Lo ringrazio ancora per non aver detto che guardava Niente.
Lo ringrazio ancora per aver dato il suo viso inalterabile a tutti i miei russi.

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