Uno dei miei libri preferiti è “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” di José Saramago. Saramago fa parlare l’unico che in tutta la storia ci rimette, ovvero il povero Cristo. Ci sono un paio di passi che mi porto dietro da quando lo lessi una decina (abbondante) di anni fa. Una parte è nel terzultimo capitolo; seduti su una barca in mezzo a un lago, avvolti nella nebbia, Gesù, Dio e il Diavolo arrivano alla resa dei conti e Dio dice a Gesù quale ruolo ha in serbo per lui: “quello di martire, figlio mio, quello di vittima, quanto c’è di meglio per diffondere una dottrina e infervorare una fede”. La frase che invece mi suona in testa almeno una volta al mese, applicabile a molti casi come si confà alle frasi feroci, la troviamo qualche capitolo prima e la pronuncia Maria Maddalena; vede Gesù compiere un miracolo, si salva lui e si salvano tutti gli altri presenti durante una tempesta; quando Gesù arriva a riva, lei lo abbraccia e gli dice “Perderai la guerra, ineluttabilmente, ma vincerai tutte le battaglie“.
Tutta la storia di Kurt Cobain, del suo essere un simbolo in un’epoca vuota, la sua necessaria presenza/assenza per richiamare i fedeli alla messa del consuma-e-crepa, la ritrovo spesso nella rappresentazione della santità parodistica di Gesù raccontata da Saramago. Ne parlo in termini religiosi perché per quanto ci si provi è impossibile allontanare quell’aura da martire da Cobain, è impossibile disincastrare quell’aureola dal suo capo biondo. Oggi, però, a trent’anni dalla morte, ci provo. Ci provo perché lo devo alla me ragazzina che pensava di ascoltare la voce di un Gesù crocifisso per i nostri peccati, e che solo successivamente, più adulta e poco incline ad avere dei miti inviolabili, svuotata di quella empatica poesia adolescenziale che ci fa credere che quelli che piacciono a noi siano sempre i buoni, e soprattutto miracolata (almeno in questo) dall’assenza di quell’asciutta deficienza che ci porta a credere che un ottimo artista sia pure, sempre e comunque, una persona ammirabile, ha capito che Kurt Cobain era per fortuna un essere umano, con molteplici doti e difetti, con una dipendenza assassina che inevitabilmente ha preso il sopravvento. Insomma: qua, oggi, non si canta la messa. Ho già letto decine di imprecisi, noiosi e sciatti reportage, speciali, inserti, articoli di beatificazione; non mi unisco al coro perché io a Kurt volevo e voglio bene come solo a un amico che t’ha portato nell’età adulta puoi voler bene. E quindi quell’amore ti fa vedere le chiazze, le macchie, le miserie, la cattiveria, la deformità, la sconcezza, le menzogne spudorate, e accetti tutto, ami comunque. Che poi è ciò che dovrebbe fare l’amore, che a voler bene al bello e al pulito è buono qualunque stronzo.
“It’s better to burn out than to fade away” lo trovavi scritto nei cessi e sui diari, sui muri degli oratori e sugli Invicta mezzi mangiati dal cane. Una tragedia generazionale per una generazione che non aveva altre tragedie perché le guerre erano già lampo pure con gli assedi che duravano anni, perché di eroi ce n’erano pochi, perché l’epoca degli anni ’80 spensierati era finita a colpi di AIDS e eroina a pioggia, perché Freddie Mercury era già morto e c’era un vuoto da colmare, in quel decennio dei 90 che s’apriva buio e tetro dopo quello a base di culi sodissimi, di aerobica e macrobiotico, nonostante, sì, l’AIDS e l’eroina a pioggia a cui non badavano, era tutta roba per gente non perbene.
In quel vuoto, in quello spazio, s’era seduto Kurt Cobain, chissà quanto inconsapevolmente e quanto furbescamente, pronto o costretto a raccogliere l’eredità di “simbolo di qualcosa” nel decennio dell’iconoclastia pura. Ma non lo sapevamo ancora che sarebbe stato buio e tetro e iconoclasta, quel decennio là.
Tutta l’aura romantica che circonda Kurt Cobain, il continuo definirlo “angelo” come se fosse un complimento, l’appioppargli un vergineo candore che lo mostra più come un idiota vero che un ingenuo alla principe Myškin, imperversa da ben prima dell’8 aprile 1994, quando lo trovarono a casa sua, già morto, dopo giorni di ricerche. ”I hate myself and I want to die” era il titolo provvisorio di “In Utero“, uscito una manciata di mesi prima che lo ritrovassero con la testa maciullata, e nessuno si stupì per quella testa bucata da una fucilata. Sembrava il normale e ovvio epilogo di una storia che aveva seguito tutto quello che il termine più amato dell’epoca racchiude: alienazione. Così si diceva di Cobain, “alienato”; prostrato dalla vita di provincia, figlio di genitori divorziati, marito della seconda vedova più odiata nella storia della musica, colei che fu “rifiutata dal Mickey Mouse Club ed ex spogliarellista al Jumbo’s Clown Room”, tanto per seguire l’indicazione biografica della diretta interessata, padre di una trentunenne che ha già fatto visita svariate volte al chirurgo plastico e che candidamente dice “non mi piacciono i Nirvana”.
Che brutta fine, Kurt Cobain, trent’anni dopo quella morte annunciata, in cui viene tirato per la giacchetta di flanella da tutti, perché il vuoto permane, e meglio un morto del Club 27 che un vivo da Spotify. In questo processo continuo all’animo candido del suicida, questo Werther che s’ammazza per protesta perché il mondo del music business è sporco e cattivo e lascia un’epistola dolorante e dolorosa pure lui come il giovanotto di Goethe, s’inserisce la versione “lo ha fatto ammazzare Courtney Love” e nella schizofrenia del trono vuoto da occupare entrambe le teorie sono valide, convivono, vengono espresse dalla medesima persona senza un dubbio, uno sguardo furtivo alla coerenza.
Kurt ha inventato un genere o forse no, è stato Andrew Wood, un altro divorato del grunge, il primo della serie. Kurt era un ragazzo disturbato o forse no, Kurt era troppo puro o forse no, Kurt era un gran paraculo o forse no, Kurt era drogato, questo sì, e forse 10 anni di eroina l’equilibrio un po’ l’erodono. Ma non faccio il medico e non lo so, so che forse dopo 30 anni dalla morte possiamo pacificamente affermare che se vuoi fare musica senza farti conoscere in giro per il globo, puoi continuare con la Sub Pop e non firmare con la Geffen. Puoi fare come i Melvins. La sua, quella di Cobain, è stata essenzialmente una storia sfigata, che doveva necessariamente finire com’è finita, era quello il lieto fine. Come disse Buzz Osborne, il leader dei Melvins citati prima, uno che Cobain lo ha conosciuto ragazzino, che ha suonato con lui, che gli ha pure chiesto di produrre un album della band ma Kurt era troppo fuori di testa per poter concludere alcunché: “Kurt è sempre stato un mago nel prendere in giro la gente” e “voleva una major, girava come un matto alla ricerca di contatti per arrivare in alto”. Sostanzialmente puntava alla fama, ci è riuscito. Forse non s’aspettava tutta quella fama e non ha saputo gestirla. Ma son tutte ipotesi.
E poiché un agnello sacrificale fa sempre comodo, nessuno ha cercato di salvarlo. Ammesso si possa salvare qualcuno contro la volontà di quel qualcuno. Nessuno ci ha provato, si dice, nessuno certamente in quelle major tanto sognate, perché riempire il vuoto, far accomodare un re, avere un’icona per battere l’iconoclastia, avere un santino nel portafogli, morto per mano sua o meno, serve sempre. Serviva più da morto che da vivo, questo s’era capito subito, e onestamente fatico a immaginarlo farsi un selfie con sua moglie e Lana del Rey quindi quasi quasi è più contento così. O magari no, sarebbe stato contento di farsi un selfie con Lana del Rey. Perché fondamentalmente Kurt Cobain non era stupido e come tutti sapeva mentire e se ti mettono addosso il mantello da super eroe un bel giorno apri la finestra e provi a volare. Bisogna capire come atterri e dove. Sempre secondo Buzz, parlando del documentario uscito una decina anni fa e che ha terminato il processo di beatificazione cobaniana: “il 90% di ‘Montage of Heck’ è una stronzata, un racconto fuorviante perlopiù. È più vicino alla mitologia che alla verità e probabilmente Kurt lo avrebbe voluto così”. C’è poco da aggiungere, se non il fatto che l’unico vicinissimo a Cobain che non è stato intervistato dalla produzione del docu-film è proprio Buzz, uno che non si prende la briga di sprecare neuroni per dirti una cazzata e poi avere l’onere di ricordarsela.
Non deve esserci dubbio. Era Uno e Trino. Ma la musica, in tutto questo, dov’è? Me lo chiedo da anni, tra biografie non autorizzate, docu-film, rimasugli di b-sides brutte come il peccato e se avessero avuto valore le avrebbe pubblicate lui, diari sputtanati, teorie complottare, il fatto che su sei “leader” di quel movimento ne resti uno solo ancora vivo (Eddie Vedder, e se c’è un Dio che ce lo conservi), un suono che non riesuma nessuno nonostante il pieno revival vintage anni 90, e un motivo ci sarà e non è certo il pudore. Non è caratteristica della nostra epoca, il pudore.
Ma la musica di Kurt Cobain, in questo circo di beatificazione, dov’è? A qualcuno interessa ancora sapere cosa suonava e cosa cantava? A qualcuno interessa quantificare il valore artistico distinguendolo dalla tragedia umana? A me sì, ed è per questo che la pelosa retorica agiografica legata alla figura di Cobain mi indispettisce, mi indispone, mi fa venire il dubbio di essere ancora circondata da tredicenni che si chiudono in cameretta ad ascoltare “Something in the way” e pensano che sì, è proprio morto per i nostri peccati, Agnello di Dio, abbi pietà di noi.
Trent’anni dopo si chiude il cerchio: è andata come doveva andare, la strada per l’inferno è lastricata di belle canzoni che però nessuno ascolta più. E questo tempo lungo e denso dovrebbe averci insegnato che alcune storie vanno come devono andare; quella di Cobain era la più pura rappresentazione della predestinazione, nichilisticamente cercata, e a cui sarebbe comunque arrivato in qualche modo e prima o poi: “It’s better to burn out than to fade away”, scritto nei cessi, sui diari, negli oratori, sugli zaini. Courtney Love è stata più furba e nel ’98 in “Reasons to be beautiful” diceva “It’s better to rise than fade away”.
Ma lei non era destinata ad occupare troni vacanti e spazi vuoti, non era un Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo.
Alcuni perdono tutte le battaglie, ineluttabilmente, ma vincono la guerra.